Il rischio di lesione da pressione nella pratica quotidiana del tecnico ortopedico: azioni, reazioni e pressioni applicate, nella realizzazione/utilizzo degli apparecchi ortopedici per l’apparato locomotore.
Lesione da decubito, ulcera da decubito, piaga da decubito, lesione da pressione e ulcera da compressione sono espressioni comunemente usate per indicare una stessa evidenza: la perdita di continuità della superficie cutanea. Una “offesa” che interessa la cute e i tessuti sottostanti (sottocute, muscolo, adipe e osso) e che si presenta come un’ulcerazione o piaga della cute stessa.
Quando si parla di decubito, il pensiero corre subito all’anziano ed in particolare al paziente anziano allettato; ma non è questo l’unico caso – seppur il più noto – in cui il pernicioso evento si verifica.
Ogni qualvolta si concentra sulla superficie della pelle una pressione applicata direttamente o indirettamente che, per intensità e persistenza, supera i parametri di resistenza della cute stessa, insiste il rischio di una lesione.
La domanda sorge spontanea! Quali sono questi parametri?
Il tecnico ortopedico, nello svolgimento della sua attività professionale, opera abitualmente l’applicazione di pressioni applicate alla cute; anche molto intense!
Un apparecchio ortopedico agisce sull’apparato locomotore ed esprime azioni che si traducono in forze tese a correggere un’alterazione morfologica o funzionale; esercita azioni che producono forze applicate al corpo del paziente e quindi pressioni esercitate sulla cute interposta tra l’apparecchio e l’apparato muscolo/scheletrico.
La sede naturale del decubito è in corrispondenza delle prominenze ossee e particolarmente in tutte quelle aree sottoposte a pressione ma non sufficientemente “stoffate” o dove il trofismo tessutale è stato minato da alterazioni biologiche intrinseche. Abbiamo anche visto come la migliore pratica preventiva all’ulcerazione risponde al criterio di una continua alternanza della pressione esercitata localmente ovvero di una ripartizione della stessa su aree surrogatizie. Per contro, sappiamo molto bene che gli apparecchi ortopedici hanno necessariamente precisi punti di presa, appoggio, contro ascesa, contro discesa e contro rotazione e che questi punti sono proprio in corrispondenza di salienze ossee. Sappiamo che se vogliamo correggere o contenere una qualsivoglia deformità, per esempio in età evolutiva, si devono concentrare delle forze sul corpo del paziente, espresse a tempo pieno, in precise aree e per tutto il periodo dello sviluppo scheletrico.
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Insufficienza vertebrale in paziente mmc che richiede l’applicazione di un corsetto. |
Se vogliamo contenere un angolo, varo o valgo di un ginocchio in un paziente, sebbene anziano, diabetico o neuropatico, dobbiamo farlo applicando forze uguali e contrarie a quelle che agiscono in senso deviante e dobbiamo necessariamente farlo per lo stesso tempo in cui il paziente desidera camminare; lo stesso è necessario fare in un paziente amputato che per contro graverà sui punti d’appoggio della protesi, con tutta l’azione gravitaria statica e dinamica espressa dalla sua forza peso, senza soluzione di continuità nell’arco della “sua giornata”.
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Sofferenza e ulcera apicale in pazienti protesizzati |
E ancora! Un paziente paraplegico o tetraplegico esprime la sua attività da seduto; questo tutto il giorno per tutti i giorni e poggiando su tessuti cutanei spesso insensibili ed ipotrofici.
Viene spontaneo a questo punto, chiedersi:
Come si può prevenire l’insorgenza d’ulcerazioni?
viste le esigenze funzionali, correttive e contentive dei dispositivi ortopedici; soprattutto in considerazione delle sempre maggiori attese di qualità per la vita del paziente.
Il tecnico ortopedico nella sua pratica quotidiana si trova continuamente di fronte a questo problema e il rischio di un’ulcera da pressione è sempre in agguato.
Spesso l’esigenza sociale del paziente od il piano terapeutico contempla tempi d’applicazione molto superiori alle capacità intrinseche di resistenza della cute; le forze applicate sono spesso esuberanti rispetto ai parametri di tolleranza locale e sempre più spesso ci si ritrova a dovere applicare apparecchi ortopedici proprio in quei pazienti che per fattori biologici intrinseci hanno caratteristiche di sensibilità, trofismo e circolo sanguineo alterati.
In questi casi una piccola vescica od un flittene sono il primo pericoloso segnale per una via senza ritorno verso lesioni profonde che, nella migliore delle ipotesi, comportano una sospensione d’utilizzo del dispositivo ortoprotesico nell’attesa di quella che sarà una lenta e penosa guarigione.
La perdita di correzione o il confino nelle mura domestiche sono il minore dei mali che possono affliggere il malcapitato.
Ogni apparecchio risponde a precisi obiettivi terapeutici e assolve – affinché sia efficiente – a precise funzioni biomeccaniche, esprimendo o scaricando pressioni selettive; pressioni specifiche a cui non si può sfuggire, pena la mancata efficacia del dispositivo medico. Queste pressioni sono teoricamente valutabili ma calcolarle oggettivamente è assai difficile quando non impossibile.
La superficie d’interfaccia tra cute e apparecchio è spesso la chiave di volta del problema; a questa può essere sommato il benefico effetto derivante dall’osservazione di rimozioni del dispositivo, cadenzate durante la giornata. Una particolare geometria del presidio, un’ampia superficie d’appoggio, un’eventuale materiale interposto contraddistinto da opportune caratteristiche chimico/fisiche fanno la differenza.
Il tecnico ortopedico deve, pertanto, progettare e approntare, caso per caso, il dispositivo medico richiesto affinché questo possa consentire “l’esercizio” della massima funzionalità con il minimo fastidio e rischio per il paziente e ne deve anche indicare i limiti temporali massimi d’uso giornaliero.
Ecco perché il tecnico ortopedico ha avuto sempre, ma ancor di più oggi, la necessità di sviluppare specifiche competenze su questo delicato tema. Il perfezionamento delle conoscenze, biologiche e chimico-fisiche dei materiali impiegati, è una connotazione obbligata nella nostra professione.
Nella valutazione dei rischi di lesione da pressione devono essere tenute in ferma considerazione due distinte dinamiche causative che costituiscono i fattori di rischio intrinsecied estrinseci:
- I parametri intrinseci sono fattori biologici d’ordine generale quali: patologie neurologiche, malattie metaboliche, disidratazione, neoplasie, anemie e malnutrizione. Sono tutti fattori che in associazione all’età e al peso del paziente influenzano significativamente l’indirizzo terapeutico/riabilitativo ed anche il rischio di lesioni cutanee.
- I fattori estrinseci (patomeccanici), invece, possono essere sia biologici sia meccanici locali.
- Il fattore biologico locale di maggior interesse per il tecnico è costituito dal rischio derivante dalla macerazione provocata dall’eccessiva umidità della cute; questa la rende più morbida e meno resistente pertanto più facilmente lesionabile. Questo fenomeno si può verificare nel caso d’eccessiva sudorazione, per insufficiente traspirazione, per ristagno di liquidi o essudati ovvero per incontinenza; il persistere di una di queste condizioni determina, nel tempo, alterazioni dello strato epidermico per riduzione della secrezione lipidica e sebacea. Patologie quali il diabete, la sclerodermia e la stessa senescenza alterano la permeabilità del connettivo e dei piccoli vasi; queste stesse condizioni comportano una distruzione dei recettori nervosi cutanei tattili e dolorifici con riduzione/assenza della percezione di sofferenza da pressione che stimola fisiologicamente il paziente, a cambiare le condizioni di carico locale. La scarsa o la totale assenza di sensibilità locale deve essere tenuta in seria considerazione in quanto non consente al paziente di percepire l’insorgenza di un’infiammazione, il dolore per un’eccessiva pressione locale o per una plica cutanea secondaria ad un cattivo posizionamento del presidio. In questi casi ci viene in aiuto solo la ripetuta e frequente osservazione della pelle; è d’obbligo indicare al paziente o ai familiari una frequente ispezione visiva dello stato della cute.
- I fattori patomeccanici sono principalmente rappresentati da: compressione, forze di taglio e frizione.
La pressione locale applicata determina un danno del tessuto, quando la forza esterna è superiore alla pressione con cui il sangue circola nei capillari (circa 32 mmHg) e ne determina la chiusura dei vasi.
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Il tessuto sottoposto ad una pressione esterna più elevata della normale pressione del sangue capillare (32 mmHg circa) ha una riduzione del flusso sanguigno e quindi una insufficiente ossigenazione |
La diminuita circolazione sanguigna porta rapidamente ad un accumulo di prodotti metabolici tossici nel tessuto con un successivo aumento della permeabilità capillare, dilatazione vasale, formazione d’edema ed infiltrazione cellulare. Queste reazioni infiammatorie suscitano nello stadio iniziale un’iperemia (rossore della cute) con aumento compensatorio della pressione capillare; in questa fase i prodotti metabolici tossici possono ancora essere trasportati via e scongiurare il danno. Tuttavia se permane l’azione della pressione, si giunge ad un’irreversibile morte delle cellule, con la formazione di necrosi dovuta all’aumento dell’ipossia tessutale. Il valore indicato, come visto da studi presentati nei precedenti articoli, non può essere considerato un riferimento assoluto ma solo un mero orientamento; un dato intorno al quale eseguire considerazioni e valutazioni “soggettive”.
La forza di taglio, di stiramento o di torsione, determina un progressivo spostamento degli strati cutanei uno sull’altro producendo sulla cute interessata una pressione tangenziale con effetto di stiramento: si verifica una trazione dei tessuti molli, ancorati alle fasce muscolari profonde con effetto di stiramento, possibile inginocchiamento, ostruzione e recisione dei piccoli vasi, trombosi del microcircolo e conseguente necrosi tessutale profonda.
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Moncone transfemorale che presenta aderenze, tessuti flaccidi con esubero di lembi, pliche, invaginature cutanee e ampolla terminale con insufficiente stoffatura della prominenza femorale. |
Le forze di stiramento agiscono parallelamente al piano interessato: la pelle tende a aderire alla superficie d’appoggio dell’ausilio tecnico, mentre lo scheletro scivola sotto l’azione gravitaria o dinamico/funzionale provocando zone di stiramento dei tessuti superficiali su quelli profondi; questo si determina in particolare nei tessuti flaccidi, nei quali la cute è lassa e scarsamente aderente ai piani osteomuscolari sottostanti. Lo stiramento e la conseguente strozzatura dei vasi, che a partire dagli strati più profondi vanno a nutrire la cute, provocano ischemia e necrosi. Tali forze intervengono, in genere, unitamente alla compressione e riducono in maniera significativa i valori pressori necessari per determinare il danno tessutale.
La forza di sfregamento, attrito o frizione è una forza esercitata tra due superfici che si muovono l’una contro l’altra (ad esempio appoggi, invaso, canestro pelvico, tomaio e piede, contenzioni tutorie nell’alternanza del passo in deambulazione). Lo sfregamento non è un fattore determinante, ma gioca un ruolo non secondario rimuovendo gli strati superficiali dell’epidermide e rendendo più suscettibile la cute agli eventi lesivi.
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Piede deforme con evidenti segni di sofferenza cutanea da sfregamento in corrispondenza delle salienze interarticolari che frizionano con la calzatura durante la deambulazione. |
E’ stato dimostrato che la rimozione dello strato corneo diminuisce l’attività fibrinolitica del derma, rendendolo più suscettibile alla necrosi da compressione. La frizione, inoltre, aumenta la perdita d’acqua transepidermica, con accumulo di liquidi in superficie e conseguente diminuzione della resistenza della cute.
Espongono maggiormente la cute ai danni da compressione anche la secchezza cutanea, dovuta a scarsa umidità nell’ambiente (meno del 40%), l’esposizione al freddo e l’uso di sostanze astringenti disidratanti e a base d’alcool che rimuove lo strato protettivo idrolipidico superficiale. La cute, nell’anziano, ha già una diminuzione del contenuto idrico e una riduzione del mantello idro-lipidico di protezione quindi la disidratazione locale provocata, determina un altro fattore di rischio.
Spesso nell’applicazione degli apparecchi ortopedici si sommano tutti questi elementi in una miscela difficilmente valutabile per singolo fattore. Nella pratica quotidiana, pertanto, si agisce per osservazione clinica e possiamo sostenere che:
- un lieve rossore della cute indica che l’apparecchio imprime un’azione ben tollerata;
- un rossore della cute che alla rimozione dell’apparecchio scompare entro un termine di 15/20 minuti è al limite della tollerabilità;
- un rossore che permane oltre questo termine è indice di un danno della cute per cui si deve provvedere;
- non sempre il danno si presenta subito di superficie e quindi è reso visibile; spesso accade che la sofferenza parta dal profondo dei tessuti e si manifesti visivamente quando ormai è troppo tardi; la prevenzione in questi casi passa da una sensibile ed accorta palpazione dei tessuti alla ricerca di flogosi, tensioni, aderenze o algie occulte in corrispondenza delle salienze ossee o dei punti di appoggio o contenzione;
Devono essere accuratamente evitate tutte le costrizioni/contenzioni che possono ingenerare un “effetto laccio”.
Rispetto a questa “spannometrica” ma efficace metodica di valutazione, il tecnico, con osservazioni seriate e per approssimazioni successive calibra le pressioni applicate, nel rispetto delle finalità funzionali, entro un range di valori tollerati dal paziente.
Abbiamo letto nei precedenti articoli quali sono i parametri di valutazione e quali le scale di riferimento per la valutazione del rischio d’ulcere da pressione. Il tecnico ortopedico non ha a sua disposizione delle “scale tecniche” pertinenti a cui riferirsi; deve pertanto fondare le sue valutazioni prendendo mossa dall’esperienza, da ipotesi di tolleranza al carico (azioni meccaniche dirette o riflesse, statiche o dinamiche imposte dall’uso dei dispositivi ortopedici), al livello d’attività e alle condizioni dello stato biologico del paziente.
A tal fine è necessario conoscere sempre, e con precisione la diagnosi, il piano terapeutico/riabilitativo, lo stile di vita e lo stato di salute del paziente.